domenica 14 settembre 2014

Piazza della Battaglia

La piazza grugniva, e si dimenava, e si contorceva: pareva una di quelle donne minute capaci di mettere i piedi dappertutto; e non potevo abbassare un attimo lo sguardo senza che, risollevandolo, mi accorgessi di qualche mutamento. Esisteva fra le panchine una sorta di flusso disordinato e velocissimo, che in pochi secondi poteva portare una persona da una parte all'altra della piazza. Così, chi stava bevendo un caffè sotto l'ombra di Don Pedro, poteva trovarsi poco dopo sull'altro lato, a chiaccherare con persone che neanche conosceva. Fu così che, più e più volte, persi di vista individui che credevo di avere sotto controllo. Un anziano zoppicante, con l'ausilio di un bastone che zoppicava ancor di più, sedette di fronte a me. Di fronte a me, dico, perché questa piazza, oltre alle solite panchine allineate, aveva delle poltrone in legno che si guardavano, a tre a tre. Tre poltrone erano cioè i vertici di un triangolo; altre tre, di un altro triangolo; e così via. Sedette di fronte a me, dunque, questo vecchietto zoppicante; e io, un secondo a guardare il volo di un gabbiano; e lui, via, sparito, non c'era più.
Come avesse fatto a fuggire così in fretta, davvero non so dire; ma, se fossi costretto, butterei lì un rapimento.
Perché, lo giuro, non andava. Andava come una lumaca.
Ricordo di un altro vecchietto - sì, eran quasi tutti vecchietti - con un coraggioso abbinamento fra camicia e pantaloni, del tipo viola-giallo, o giallo-viola, o non lo so. Un cappello a cilindro azzurro, questo lo so. Guardai qualche panchina più in là, in un altro triangolo, e lo vidi. Poi, poco dopo, guardai di nuovo: e, salvo magiche trasformazioni, il suo posto era stato preso da Morpheus - quella specie di capo, in Matrix -, oppure da qualcuno che gli somigliava parecchio. Dove fosse finito quel cilindro azzurro, non mi fu dato di scoprire.
Questo triangolo, quello dove prima sedeva Arlecchino e dove ora sedeva Morpheus, era senza dubbio il più interessante dell'intera piazza. Si poteva percepire un centro di energia, lì, a cui tutto ruotava attorno. Il centro di energia consisteva in un signore nero. Non Morpheus. Un altro.
In pieno agosto, con il cielo che - era chiaro a tutti - non avrebbe concesso l'intrusione a nessun tipo di grigiore, questo signore indossava un pesante berretto di lana.
E cantava. Cantava un canto africano, uno di quelli che si può ascoltare in tanti documentari. Il primo che ti viene in mente se pensi a persone che saltellano in tondo mentre suonano il tamburo. Io, non conoscendo la lingua, non capivo se dicesse effettivamente qualcosa, oppure se si limitasse a emettere suoni privi di significato. Era tutto immerso nel suo canto. Teneva gli occhi chiusi, e non era interessato a niente, se non a quello che stava facendo. Cantava, e ruotava la parte superiore del busto, formando delle circonferenze con la testa. Per lui il mondo era tutto lì.
Il canto andava via via aumentando in volume. Oltre che alla passione sfrenata del cantante, questo era dovuto ad un signore che sedeva lì, allo stesso triangolo, e che continuava a richiedere che il canto fosse più alto, e più forte, e più possente. Il nero aumentava ma lui no, non era contento, e con le mani diceva Di più, voglio di più, più alto.
E il nero su, più alto.
Il terzo posto del triangolo cambiò una decina di volte. Morpheus si stancò in fretta di ascoltare quelle grida invadenti: si alzò e cambiò panchina, con fare un po' goffo e imbronciato, come a dire: Guarda te, che maleducazione, uffa, adesso mi alzo e vado via!
Il posto venne immediatamente occupato da un altro signore (vecchio). È difficile capire come avesse ragionato, nella scelta del posto, visto che poco dopo se ne stava a leggere il giornale tre o quattro panchine più in là. Così un altro; e poi via; e un altro ancora.
E il nero continuava.
E il motivatore continuava. Aveva iniziato a scandire il ritmo del canto battendo un piede a terra.
Poi c'era il marinaio.
Si sedette grossomodo fra me e il cantore, in traiettoria. Non so se fosse un marinaio o no, ma secondo me sì, perché aveva tutto del marinaio. Se a un certo punto avesse tirato fuori qualche strano aggeggio marinaresco e avesse iniziato ad affaccendarsi e ad imprecare contro il vento dell'Est, non mi sarei affatto stupito. È superfluo dire che non mi accorsi del momento in cui sedette. Il flusso disordinato e velocissimo lo aveva portato lì da chissà dove.
Dal mare, probabilmente.
Mi accorsi di lui quando, guardando il busto del nero ruotare come se obbedisse alle istruzioni di un insegnante di yoga, vidi, leggermente sulla destra, una lingua sbieca che pattinava su una cartina; e, sopra la lingua, due occhi sbiechi che mi guardavano; e, dietro a tutto ciò, una faccia strinata che aveva patito il sole cocente dell'oceano.
Era infastidito, questo marinaio. Il canto lo disturbava, e, per fuggire, mirava in lontananza la statua di Don Pedro. In lontananza, poi: era a venti metri; ma il suo sguardo sembrava andare oltre, come a puntare una qualche preda là, nell'oceano, nell'abisso.
Era infastidito, dunque, e lo divenne ancor di più quando due ceffi sedettero al suo triangolo. Gli disse Via, andate via, non vi voglio. Mi sono seduto qui solo e voglio restare solo. E così fu, e il marinaio si trovò di nuovo solo, e la sua lingua pattinava di nuovo su una cartina, e così fumò, e fumò ancora, e mirò, lontana, la statua, la preda.
Fumava strano. Le sue sigarette finivano in tempi brevissimi. Per di più non aspirava, o aspirava poco: non faceva in tempo a tirar dentro il fumo che subito una vampata di grigio gli copriva la faccia.
E poi sputava. Sputava a terra. Sputi possenti, che, oltre alla saliva, sembrava racchiudessero tutta la sua vita. Tonno, sale, vento, pioggia: tutto sembrava mescolato in quegli sputi. Ciaff, facevano, quando toccavano terra.
Per la verità, in quella piazza sputavano più o meno tutti. Era uno sputo continuo.
Sputava anche il cantante, che ora, ritrovatosi solo al triangolo - eh sì, anche il motivatore se n'era andato, non so dove -, ritrovatosi solo al triangolo continuava a fare il suo mestiere.
Poi però si alzò.
Iniziò a passeggiare per la piazza. Alla tonda, più o meno. A volte mi passava davanti e altre volte mi passava dietro. Cantava; e, ogni volta che passava dalle mie parti, io cantavo con lui, cercando in tutti i modi di essere accolto. Ma lui no, niente: mi guardava un attimo e poi proseguiva a camminare. Adesso che il motivatore non c'era più, era davvero solo nel suo mondo, e non permetteva a nessuno di entrare.
A giudicare dalle facce della gente, vien da dire che il nero fosse malvoluto. Facce irritate, facce disgustate. Forse era proprio per questo che così tanti sputi volavano qua e là per la piazza. Perché il nero era disgustoso. Non so.
Quel che so è che per me era magnifico. Guardavo solo lui. Gli invidiavo questa rara capacità di esprimere passione. I miei muscoli si contraevano solo quando mi passava dietro, perché avevo il forte timore - giustificato, credete - che potesse sputarmi in testa. Questo sputava, ma sputava a caso, con gli occhi chiusi, e più di una volta qualche malcapitato si vide arrivare un proiettile appiccicoso sulle scarpe. Però volevo dimostrargli la mia fiducia, e allora, quando mi passava dietro, anche se ero contratto, non mi muovevo, e cantavo. E, per fortuna, il nero non mi colpì.
Magnifico, dunque, per me. E magnifico anche per un altro signore. Cieco, credo. Se non cieco, quasi cieco, comunque. Come me, tentava in tutti i modi di attaccare un duetto - invano, perché, come potete immaginare, il nero neanche ascoltava, e continuava a passeggiare come se niente fosse.
Passeggiava, e, nel passeggiare, spostava molto il peso del corpo da una parte all'altra. Da destra a sinistra; da sinistra a destra; qua e là; là e qua. Era un passeggiare piuttosto pesante. Però non era un barcollare: la traiettoria era ben definita. Era semplicemente la camminata di un gigante dei cartoni, che ad ogni passo fa Pum, Pum, Pum.
Nel frattempo, la piazza continuava ad evolvere. Strani ceffi mi passarono davanti. Uno sedette in un triangolo vicino, in una poltrona che stava alla stessa altezza della mia e che era orientata allo stesso modo. Diciamo pure che sedette di fianco a me.
Aveva i baffi come Hitler. Non me ne accorsi subito, perché rimase per qualche minuto voltato dall'altra parte, quasi a volersi nascondere. Se qualcuno, in quei minuti, mi avesse chiesto di abbozzare il viso del signore, io, con tutti i miei limiti, avrei buttato giù qualche linea disordinata; ma - credete - non avrei in nessun modo disegnato qualcosa che volesse dire "baffi". Visto da dietro, questo signore non ce li aveva, i baffi. A un certo punto, però, si girò, e dovetti concludere che visto da davanti ce li aveva. Di più: erano come quelli di Hitler. Stonavano così tanto che sembrava fossero attaccati con la colla. Magari il pegno da pagare per una scommessa persa: mi immaginavo i suoi amici a ridere dietro un cespuglio. Proprio strano, questo signore. Mezzoretta dopo, non c'era più, e il posto di fianco a me tornò ad essere vuoto.
Anche il marinaio se ne andò.
Lui però lo avrei cercato anche in capo al mondo, così mi alzai e iniziai a guardarmi intorno velocemente. Lo vidi ad almeno trenta metri di distanza che discuteva con un signore.
Che inquieto, questo marinaio! Si vedeva, che qualcosa lo tormentava. Si vedeva, in quello sguardo lontano, che la sua vita non era finita; e che, se Dio così avesse deciso, qualcosa non sarebbe stato compiuto. Il mare doveva ancora rivelargli un ultimo segreto. Poi, il suo sguardo sarebbe tornato vicino, fra noi, e avrebbe effettivamente puntato alla statua. Le rughe sul volto sarebbero scomparse; e non più sigarette così agitate! non più discussioni così accese! Solo pace. Ma chissà, cos'ha deciso Dio. Se concedergli questo privilegio, oppure se farlo morire con la fronte aggrottata e col pensiero là, oltre la statua. Chissà.
Intanto, la sera si affacciava sulla piazza.
Il canto del nero era diventato un po' più fiacco, e non c'era più quel Pum Pum di prima. Per accorgermi di lui, adesso, dovevo guardarmi intorno alla ricerca di un berretto di lana nero col risvolto giallo.
La piazza iniziava ad evolvere più lentamente. Poco a poco, quel flusso magico, così intenso fino a qualche minuto prima, iniziò a scemare, e gli spostamenti delle persone divennero sempre più ragionevoli. Provai ad abbassare lo sguardo, e poi a rialzarlo, ma tutto era immutato. Notai solo che un'anziana signora era passata dal leggere un giornale al raccattare tutti i propri averi.
Il nero rallentava. Ancora.
A un certo punto si fermò accanto a una panchina, e stette un attimo in silenzio. Guardava la panchina con occhi neutri. Poi decise di sedersi. Si mise sempre più comodo, così che in meno di un minuto stava sdraiato. La piazza si muoveva al rallentatore, e quell'anziana signora aveva appena fatto in tempo ad alzarsi e a muovere i primi passi verso casa.
Il nero si addormentò, e tutto divenne fermo.

Ruhollah

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